giovedì 14 gennaio 2021

Il rione Monti: storia e curiosità

 

I rioni di Roma mantengono in gran parte gli antichi confini delle regiones individuati all’epoca dell’imperatore Augusto per migliorare l’amministrazione della città. Monti corrisponde alla terza regio, che era intitolata alle divinità egizie Iside e Serapide, il cui tempio sorgeva sul colle Oppio, nei pressi del Colosseo. La regio includeva parte di ben quattro dei sette colli, Quirinale, Viminale, Esquilino e Celio: da questa caratteristica derivò il nome di Monti affermatosi durante il medioevo. 


Passeggiando per i vicoli del rione c’è la possibilità di conoscere la storia della città, dall’antichità all’era moderna. Basta lasciarsi affascinare dagli imponenti ruderi delle Terme di Traiano sul colle Oppio, le più grandiose dell’epoca, e dei Fori imperiali con l’eccezionale muro di fondo del Foro di Augusto, alto ben 30 metri, costruito per proteggere la piazza dai frequenti incendi che distruggevano la Suburra, il quartiere popolare che si estendeva proprio sulle pendici dei colli. La Suburra (da sub-urbe, sobborgo della città) era la zona malfamata, dominata dalle insule che ospitavano locande e lupanari che fecero da sfondo alle notti insonni e viziose dell’imperatrice Valeria Messalina, che qui si prostituiva con gladiatori e marinai usando il nome di Licisca. 



La splendida salita dei Borgia, con il balconcino rinascimentale da cui il poeta Lord Byron immaginava affacciarsi la bella e pericolosa Lucrezia, nasconde la storia crudele della morte del sesto re di Roma, Servio Tullio. Secondo la tradizione, la salita mantiene il tracciato dell’antichissimo Clivus Sceleratus, chiamato così a memoria dell’atto scelerato di Tullia che qui passò più volte con il suo carro sul cadavere del padre, appena ucciso da suo marito Lucio Tarquinio, per sostituirlo sul trono di Roma. Il genero di Servio Tullio divenne così l’ultimo re di Roma, Tarquinio il Superbo, e Tullia l’ultima regina.


Il rione Monti, più di ogni altro, custodisce le tracce della storia medioevale di Roma, grazie alle antiche chiese e basiliche, e alle affascinanti torri che si incontrano passeggiando nei suoi vicoli. Secondo il Liber Pontificalis a Roma ben 25 basiliche sorgono sopra un “titolo”. Per la Chiesa delle origini, i titoli erano i luoghi in cui i cristiani potevano riunirsi per le loro riunioni e cerimonie, all’insaputa delle autorità pagane. Prendevano il nome dal proprietario dell’edificio, spesso un magazzino o un’aula di una domus, che veniva destinato a tale scopo; finché, con la liberalizzazione delle religioni avvenuta a seguito del celebre editto di Milano del 313 d.C., questi luoghi vennero man mano trasformati nelle chiese che oggi conosciamo. All’interno del rione, le basiliche di San Clemente, Santa Prassede, Santa Pudenziana e dei Santi Silvestro e Martino ai Monti conservano livelli sotterranei che raccontano questa fase paleocristiana. 


Ma non solo. Una chiesa unica nel suo genere è Sant’Agata dei Goti in via Mazzarino, fondata nel V secolo per volere di un generale romano di origine gota. Flavio Ricimero era però un barbaro cristiano ariano e fondò la prima e unica chiesa di culto ariano di Roma. Ario (256-336) era un monaco e teologo orientale che rifiutava la “consustanzialità col Padre” sostenendo che la natura divina del Figlio fosse inferiore a quella del Padre, perciò le sue parole non potevano essere il Verbo divino. Il suo pensiero fu ritenuto eretico dal Concilio di Nicea del 325, ma nonostante ciò i suoi seguaci giunsero anche a Roma. La chiesa rimase in funzione sino alla metà del VI secolo. Quando i goti vennero sconfitti dall’esercito bizantino nel corso delle guerre gotiche, la chiesa fu chiusa al culto. Ci pensò papa San Gregorio Magno, nel 592, a riscattarla e consacrarla al cattolicesimo, dedicandola a San Sebastiano e Sant’Agata. Nei secoli fu conosciuta come Sant’Agata de Caballo (si trova sulla salita verso il Colle di Montecavallo, come veniva detto il Quirinale), sino agli anni Venti del Novecento quando Pio XI decise di recuperarne il nome originario.


    


Le torri sono un’altra delle caratteristiche di Monti. La torre dei Graziani e quella dei Capocci (ancora abitata) dominano il Colle dell'Esquilino, guardando minacciose le torri sottostanti degli Annibaldi e dei Borgia (riutilizzata come campanile della chiesa di San Francesco di Paola). La Torre dei Conti, del Grillo e delle Milizie, fecero parte di un’unica immensa fortezza posta a controllo del Quirinale contro i vicini e nemici Colonna. Sono solo alcune delle circa cinquanta torri che oggi si conservano in tutta la città e che raccontano di quando Roma veniva definita un campo di “spighe di grano” per le sue trecento torri svettanti tra i colli. Furono costruite tra il X e XIV secolo, periodo di lotte continue tra le fazioni guelfe filopapali e quelle ghibelline filoimperiali che si contendevano il potere. Probabilmente ce ne sarebbero molte di più se nel 1254 il Senatore Brancaleone degli Andalò, con l’appoggio del popolo, non avesse deciso di imporre il proprio dominio sulle famiglie baronali abbattendo ben 140 torri, cercando di porre fine alle prepotenze dei nobili.


Nel corso del medioevo Monti in realtà non era un quartiere vivace, la mancanza di acqua e di manutenzione alle fognature rendevano la zona invivibile per il popolo che si spostò più a valle, nell’area del Campo Marzio. Nel Rinascimento le cose cambiarono. Papa Gregorio XIII portò le condutture dell’Acqua Vergine e fece creare nuove arterie, come l’attuale via Merulana, la scenografica via Panisperna e il corso dè Monti, cioè via dei Serpenti. Il suo successore Sisto V completò il progetto facendo realizzare all’architetto Giacomo Della Porta la fontana di Piazza della Madonna dei Monti (1588), divenuta oggi il cuore del rione insieme alla vicina Chiesa che ne dà il nome. Sull’altare della chiesa è custodita la miracolosa Madonna dei Monti: nel 1579 degli operai dovettero fermarsi nel picconare un muro per aver sentito una voce di donna che richiamava la loro attenzione. Trovarono così il piccolo affresco della Madonna in trono col Bambino, affiancata da Santi; tra i tanti monticiani che accorsero a vederla ci fu una donna cieca che riacquistò la vista proprio davanti all’icona. La chiesa fu costruita sempre dal Della Porta, nel 1581, per ospitare la Madonna miracolosa e si presenta con la forma tipica delle chiese della Controriforma, a navata unica con cappelle laterali.



Sulla salita del Grillo spicca il seicentesco palazzo della famiglia a cui appartenne l’indimenticabile marchese Onofrio del Grillo celebrato nel film di Monicelli con superbo protagonista Alberto Sordi. Una targa all’ingresso ricorda che qui visse nel secondo dopoguerra il pittore siciliano Renato Guttuso.


Altre interessanti targhe si trovano a via Baccina n.32 e via Panisperna n.87. 



La prima venne messa nel 1949, a memoria della casa in cui trascorse l’infanzia e l’adolescenza Ettore Pretolini (1884-1936), noto attore di avanspettacolo, caricaturista e cantante. Il “roscio de li Monti”, com’era soprannominato, era noto a tutto il rione per le sue marachelle e per i suoi primi spettacoli parrocchiali che lo fecero appassionare all’arte a cui dedicò tutta la sua breve vita. E’ stato il primo a cantare le celebri “Una gita a li Castelli” (“Nannì”) e “Tanto pe cantà”, canzoni che ancora oggi rimandano a una Roma verace e sincera che ben si può respirare tra le strade di Monti. 





La seconda targa ricorda l’eccellenza italiana rappresentata da un gruppo di giovanissimi scienziati che, in un elegante palazzetto settecentesco, tenevano esperimenti sul nucleo dell’atomo che portarono a porre le basi sulla conoscenza dell’energia atomica. I ragazzi di Via Panisperna ruotavano intorno alla personalità di Orso Maria Corbini, direttore del Regio Istituto di Fisica dell’Università di Roma, che nel 1926 creò la cattedra di Fisica teorica appositamente per Enrico Fermi. Dal 1929 al 1938 Fermi insegnò a un gruppo composto dalle eccelse menti di Edoardo Amaldi, Franco Rasetti, Emilio Segrè, Bruno Pontecorvo, il chimico Oscar D'Agostino ed Ettore Majorana. Il ‘38 fu l’anno che pose fine ai loro esperimenti a causa della morte di Corbini e della promulgazione delle leggi razziali: Fermi partì per Stoccolma per ricevere il Nobel per la Fisica e non fece più ritorno in Italia, preferendo trasferirsi a New York con la moglie di origine ebraica, e così fecero anche gli altri membri del gruppo che continuarono le loro ricerche in altri paesi. La fine più misteriosa e tragica fu quella di Ettore Majorana, l’unico a scegliere di rimanere in Italia, andando a insegnare all’università di Napoli: appariva stanco e stressato, così gli amici gli suggerirono un viaggio nella sua Palermo, dove scomparve nel nulla il 26 marzo 1938 a soli 31 anni.




        



venerdì 29 maggio 2020

Il volto di marmo di Piazza Navona

Piazza Navona è sicuramente uno dei luoghi più ricchi di storia della città.

La sua forma deriva dallo Stadio che l’imperatore Domiziano inaugurò nell’86 d. C. per lo svolgimento dei Certamen Capitolinum Iovi, ovvero le gare di atletica importate dalla Grecia e dedicate a Giove Capitolino. Dopo l’abbandono, nel Medioevo, divenne il Campo agonalis, mantenendo traccia della sua funzione originaria proprio nel nome (agonalis deriva da agone, termine che in Grecia significava proprio gara). Questa sua origine si conserva ancora oggi nella Chiesa di Sant’Agnese in Agone, dalla cui storpiatura, nel tempo, derivò la stessa parola Navona.
La piazza si presenta bellissima con le opere barocche di Bernini e Borromini, le fontane e i palazzi. Sicuramente c’è tanto da ammirare...ma avete mai notato una testa di marmo murata al primo piano di Palazzo De Cupis, proprio sopra l’insegna del ristorante Tre scalini? Si tratta di un piccolo dettaglio rispetto alla ricchezza della piazza, ma ci racconta una storia estremamente interessante.

Dobbiamo tornare indietro nel tempo a quando venne eletto al soglio pontificio il cardinale marchigiano Felice Peretti (1521-1590), papa Sisto V, nel 1585.

Nonostante abbia governato solo per cinque anni, è tra i papi più ricordati in città per il suo esser stato un riformatore, un abile finanziere, ma soprattutto un uomo di ferro votato al potere assoluto, tanto da esser soprannominato “er papa tosto”. Da cardinale era stato nominato inquisitore a Venezia nel 1557 da Paolo IV: quando il papa morì e il successore Pio IV gli rinnovò la carica, fu rifiutato sia dai francescani, ordine a cui apparteneva, sia dal governo veneziano a causa della sua nota severità. Si trasferì a Roma, dove ebbe il ruolo di Consultore Teologo dell’Inquisizione oltre che insegnante di Teologia presso l’Università. Ebbe un periodo di difficoltà durante il pontificato di Gregorio XIII Boncompagni a causa di screzi con la sua famiglia, tant’è che rimase senza ruoli ufficiali e fu anche privato dell’assegno per i cardinali “poveri” che ammontava a 1.200 scudi annui. Al momento della morte di papa Boncompagni, però, non si fece trovare impreparato. Leggenda vuole che si presentò al Conclave curvo su un bastone e con un aspetto stanco e malandato, così da sembrare un povero vecchio facilmente malleabile. In realtà il Peretti o Montalto (veniva anche chiamato così per il suo paese di origine) aveva preso accordi con i due cardinali più influenti del collegio, Luigi d’Este e Ferdinando de Medici, per farsi eleggere. Fu così che all’età di 64 anni, il 24 aprile del 1585 divenne Sisto V. 

Il suo fu un pontificato breve ma intenso; teneva molto alla giustizia e alla sicurezza, e introdusse nuove tasse per rimpinguare le casse e attuare un ammodernamento della città. Fu con lui che vennero recuperati e sistemati gli obelischi di Piazza San Pietro, Piazza del Popolo e del Laterano, fece aprire la via Sistina e costruire un acquedotto che da lui prende il nome di Acqua Felice. Insieme all’acquedotto vennero realizzate fontane, come quella del Mosè in Largo Santa Susanna, nota per la bruttezza della statua!
La sua severità non piaceva ai romani, e soprattutto odiavano le tasse, come quella sul vino. Periodicamente i papi aggiungevano questa gabella su uno dei generi di maggior consumo, giustificandone l’introduzione al fine di evitare che il popolo ne facesse troppo uso, ritenendo il vino pericoloso soprattutto per l’ordine pubblico. Gli osti, in particolare, odiavano ulteriormente Sisto V perchè li aveva obbligati a pagare una piccola tassa per ogni “fojetta” (misura che corrisponde a mezzo litro) venduta e ad utilizzare brocche di vetro con il sigillo della Camera Apostolica al posto delle solite di coccio o ferro, cosicché i clienti potessero vedere bene la quantità di vino che gli veniva servita e che non fosse stato allungato con l’acqua.
Il papa era a conoscenza dell’antipatia che il popolo nutriva nei suoi confronti, e, secondo la leggenda, era lui stesso ad andare in giro a sondare l’opinione pubblica, travestendosi da straniero. 

Fu in una delle sue uscite che arrivò a Piazza Navona e, dopo aver parlato con uno stalliere e un caldarrostaio che non si sbottonarono alle sue domande, decise di entrare in una osteria, proprio lì dove oggi c’è il ristorante. Seduto al bancone, chiedeva all’oste di portargli “mezza fojetta” di vino che, prontamente e di nascosto, svuotava in una fiaschetta che aveva con sè, così da poterne ordinare un’altra e ancora un’altra. L’oste infastidito dal dover andare in cantina più volte per una piccola quantità, iniziò a borbottare e a maledire a gran voce Sisto V che aveva introdotto queste nuove regole. Alle parole dello straniero che, invece, difendeva il papa e le belle opere da lui fatte, l’oste si inferocì ancora di più e allontanò in malo modo l’uomo dalla sua locanda. E’ evidente che non si fosse accorto di avere il papa di fronte a lui!
Il giorno dopo, quando andò ad aprire l’osteria, trovò le guardie che montavano il patibolo proprio lì davanti. Pensò che quella sarebbe stata una giornata proficua per i suoi incassi, visto che ci sarebbe stata un’esecuzione e tanta gente sarebbe arrivata ad assistere. Così iniziò a sistemare tavoli e sedie per poter accogliere più clienti possibili. Immaginate il suo stupore quando le guardie gli si avvicinarono per prelevarlo e condurlo al patibolo! Domandò il perchè, ma gli venne risposto di chiedere al papa “che era stato da lui la sera prima”! Nessuno potè fare nulla, Sisto V aveva deciso di condannarlo per le brutte parole che gli aveva sentito dire sul suo conto. Fu decapitato e la sua testa rimase impalata davanti la locanda per tre giorni. 
La piccola testa di marmo sul palazzo fu voluta dagli altri bottegai della piazza, per ricordare il loro amico, ma soprattutto per ricordare a loro stessi di non parlar mai male di Sisto V davanti a nessuno!

domenica 17 maggio 2020

Il misterioso volto di marmo


Quando si arriva a Piazza di Trevi il nostro sguardo viene irrimediabilmente catturato dall’imponente bellezza della fontana, la più grande di Roma nonché la più famosa del mondo. In pochi si guardano intorno ma all’osservatore più attento non sfuggirà, sul lato opposto della piccola piazza, la ricca facciata barocca della chiesa dei SS. Vincenzo e Anastasio. Oltre alle 18 colonne che valsero alla chiesa l’appellativo di “canneto”, una singolare particolarità è rappresentata del bel busto femminile al di sopra del portale. Non si tratta di un angelo e neppure di una santa, è davvero un caso unico per una chiesa di Roma. Chi è dunque questa donna che da secoli ci guarda dall’alto?
La grande iscrizione ci informa che la chiesa venne completamente riedificata per volere del celebre cardinale Giulio  Mazzarino, Primo Ministro di Francia.
Dalla figura del celebre committente nasce una suggestiva interpretazione: il sensuale busto femminile non sarebbe altro che il ritratto di una delle sue nipoti, Ortensia Mancini, una delle donne più belle e scandalose del Seicento.

Ortensia era la quarta delle cinque sorelle Mancini, figlia del barone Lorenzo Mancini e di Geronima Mazzarino, sorella del Cardinale Giulio, uno degli uomini più potenti di Francia.

Alla morte del marito Geronima pensò bene di trasferirsi a Parigi per sfruttare l’influenza del fratello e assicurare alle cinque figlie prestigiosi matrimoni. Le sorelle Mancini erano celebri per la loro bellezza e, insieme alle cugine Martinozzi, erano note a corte come le Mazarinettes.

La sua avventurosa vita fu da lei stessa raccontata in un’autobiografia: corteggiata giovanissima dai più nobili uomini d’Europa, fu notata dal re Luigi XIV ma il legame amoroso fu interrotto dal tempestivo intervento dello zio cardinale. Dopo aver rifiutato eccellenti proposte di matrimonio, per Ortensia fu scelto come marito Armand Charles de La Porte de La Meilleraye.
Fervente cattolico e  patologicamente geloso, costrinse la bella moglie a una vita di isolamento, lontana dalla tanto amata mondanità della corte francese. Nonostante il matrimonio infelice la coppia ebbe cinque figli ma, la notte del 13 giugno 1668, Ortensia riuscì a fuggire in Italia raggiungendo l’amata sorella Maria, principessa Colonna.

Libera da quell’infelice vincolo, iniziò una nuova vita di amori ed eccentricità: amava infatti indossare abiti maschili mostrando sfacciatamente la sua bisessualità. Fu l’amante del re Carlo II d’Inghilterra, del duca Carlo Emanuele II di Savoia, del principe Louis Grimaldi e di molte nobildonne inglesi.

In Italia però il suo eccentrico modo di vivere le creò seri problemi: venne cacciata infatti da palazzo Colonna per aver intrecciato un’intima relazione con il proprio scudiero. Venne quindi ospitata da sua zia, Laura Martinozzi, che le impose una vita più riservata ma il soggiorno terminò con un brusco litigio. Poiché il suo stile di vita screditava l’immagine dell’intera famiglia in tutta Europa, si decise di rinchiuderla in un monastero in Campo Marzio dal quale riuscì a uscire solo grazie all’appoggio del pontefice.

Dopo un breve soggiorno parigino, dove ebbe come amanti il conte di Marsan e suo fratello Philippe, ritornò nuovamente a Roma dove collaborò attivamente alla fuga di sua sorella Maria.

Venuta a conoscenza che il marito era sulle sue tracce e temendo di essere catturata, Ortensia trovò protezione in Savoia, grazie ai favori del duca Carlo Emanuele II. Fu durante questo tranquillo periodo della sua vita che Ortensia pubblicò le sue famose memorie. Il suo scopo fu quello di riaccreditare la propria immagine, non raccontando dei suoi amanti, ma mostrandosi al mondo come una donna ingenua costretta  al matrimonio per scopi politici.

Alla morte del duca iniziò una nuova vita per Ortensia: viaggiò per l’Europa arrivando infine a Londra alla corte del suo vecchio spasimante, il re Carlo II. La sua bellezza non passò certo inosservata, oltre ad essere l’amante del re intrecciò una relazione con Louis Grimaldi, principe di Monaco, e con il suo proprio nipote, Filippo, figlio della sorella Olimpia. Il loro amore fece scandalo e terminò tragicamente quando Filippo, geloso dei numerosi amanti della zia, sfidò a duello in barone Banier uccidendolo.

Dopo una vita di eccessi, amanti e gioco d’azzardo Ortensia si ammalò e, l’11 giugno 1699 la duchessa morì, secondo alcuni suicidandosi bevendo smodate quantità di forti alcolici.

Tutta questa vita racchiusa in un busto di marmo in una piazza di Roma, questa è la magia della nostra città.

giovedì 14 maggio 2020

Caravaggio e la Cappella Contarelli di San Luigi dei Francesi


Quando Caravaggio arrivò a Roma intorno al 1592, era solo un giovane pittore in cerca di fortuna nella capitale della cristianità. Si avvicinava il giubileo del 1600 e tanti erano i cantieri aperti e le possibilità di lavoro. Tra i cantieri da portare a termine c’era anche la chiesa di San Luigi dei Francesi. 

Nonostante fosse stata consacrata nel 1589, non tutti i proprietari avevano terminato le loro cappelle come nel caso del cardinale francese Mathieu Cointrel.
Cointrel, italianizzato come Matteo Contarelli, era stato un grande mecenate; aveva finanziato la costruzione della stessa chiesa e comprato una cappella per sé stesso. Tanti erano però i dubbi sulla provenienza della sua ricchezza, viste le origini umili della sua famiglia. Quando Contarelli morì nel 1585, papa Sisto V fece aprire un’inchiesta e scoprì che il cardinale, a capo della Dataria apostolica, aveva utilizzato in maniera piuttosto disinvolta il denaro che gestiva. Fu un vero e proprio scandalo, messo a tacere due mesi dopo dal papa stesso che, probabilmente, non volle inimicarsi ulteriormente l’ambasciatore francese.
Contarelli aveva lasciato, nel testamento, indicazioni ben precise sulla decorazione della cappella e sull’uso del suo denaro, ma gli esecutori testamentari e il pittore Giuseppe Cesari (subentrato a Girolamo Muziano nel 1591) sembravano presi da altri interessi e il lavoro languiva. 
Si arrivò al 1599 e nella cappella c’erano ancora le impalcature e le pareti vuote, così i prelati francesi iniziarono a premere per avere la chiesa completa per il Giubileo dell’anno successivo. Cesari era troppo occupato con il lavoro nella Basilica di San Pietro, perciò si cercò un altro artista in grado di completare le decorazioni mancanti in poco tempo. 

Il cardinale Francesco Maria del Monte, potente ambasciatore del Granducato di Toscana, residente nel vicino palazzo Madama e amico di Virgilio Crescenzi, l’erede di Contarelli, propose il suo protetto, Michelangelo Merisi da Caravaggio


Fu un’occasione da non perdere. Caravaggio si mise subito al lavoro, aveva a disposizione meno di cinque mesi per realizzare due dipinti!
In più, per la prima volta si trovò a dipingere tele di grandi dimensioni e le difficoltà non mancarono. Le indagini radiografiche sulla prima tela dipinta, Il Martirio di San Matteo, hanno mostrato almeno tre ripensamenti della composizione. Nella prima versione, più classica e legata al manierismo, sul fondo c’era il prospetto di un tempio e il soldato era in primo piano quasi a coprire la figura del Santo nel momento dell’uccisione. Nella seconda, i gesti dei personaggi erano più netti e forti. La terza versione è quella che vediamo e che nasconde le altre. Di Caravaggio infatti non si conoscono disegni, lavorava direttamente sulla tela: sulla preparazione tracciava dei segni con la parte dura del pennello per definire le posizioni dei personaggi e quindi li dipingeva, partendo da una base chiara che man mano scuriva. Un metodo sicuramente unico e rivoluzionario per l’epoca!


Secondo la tradizione, San Matteo venne martirizzato mentre diceva messa, così Caravaggio lascia sul fondo l’altare, lo veste con i paramenti liturgici e lo sdraia sul bordo di una fonte battesimale, mentre alza il braccio destro per raggiungere la palma che gli viene concessa dall’angelo che per lui si “affaccia” dai cieli, sporgendosi da una corposa nuvola. Il gesto di San Matteo è bloccato dal suo aguzzino coperto solo con un panno sulle parti intime, così come i suoi aiutanti dai corpi ben torniti, per i quali Caravaggio guardò al Michelangelo della volta della Cappella Sistina. Intorno si dispiegano altri personaggi, fedeli presenti alla celebrazione, ma solo un ragazzo fugge spaventato; tutti gli altri assistono all’evento con i loro bei abiti, precisamente dipinti. L’uso di rendere contemporanee scene antiche con l’espediente degli abiti moderni, era molto diffuso e serviva a rendere le immagini più comprensibili ai fedeli che riuscivano a immedesimarsi meglio nel dolore vissuto dai martiri. Ma bisognava fare attenzione. Al tempo della Controriforma, anche l’abbigliamento era soggetto a regole severe, aveva un significato, come l’appartenenza a una precisa fazione politica (tendenzialmente francese o spagnola), perciò Caravaggio dovette pensare che era meglio vestire gli aguzzini “all’antica”.
Sul fondo, il volto di un giovane emerge dal buio e ci guarda dritto negli occhi: è l’autoritratto dell’artista che ci richiama alla nostra responsabilità, ad osservare la tragica morte/esempio di un martire. 



Il secondo dipinto è La Vocazione di San Matteo. In una stanza anonima un gruppo di uomini siede intorno a un tavolo, intenti a contare le monete raccolte durante la giornata da esattori delle tasse. Un giovane e un anziano siedono a sinistra e continuano nella loro occupazione, mentre gli altri sono stati distratti dall’ingresso di due “estranei”. A destra, entrano in scena San Pietro e Gesù, abbigliati come due pellegrini, che rivolgono la loro attenzione all’uomo con la lunga barba, indicandolo. Quel gesto viene ripetuto dallo stesso Matteo che lo rivolge verso se stesso: non è un gesto qualsiasi, ma si tratta di un altro omaggio a Michelangelo e alla famosa scena della Creazione dell’Uomo, con la mano di Adamo che cerca di avvicinarsi a Dio. Anche in questo caso è nascosto un ripensamento: San Pietro è stato dipinto in un secondo momento per coprire la figura di Gesù, così da rendere l’immagine meno immediata e costringere lo spettatore ad addentrarsi nel dipinto, ad osservare bene sguardi e movimenti per comprendere appieno i vari ruoli.
Accanto a Matteo un giovane guarda strafottente i due “estranei”: ha il volto di Mario Minniti, un artista amico di Caravaggio e più volte usato come modello. Il giovane che siede di fronte, invece, si volta di scatto spaventato, con la mano sinistra pronta a sguainare la spada per difendere l’incasso della giornata. Sembra una scena di genere piuttosto che un dipinto sacro! Una di quelle scene che spesso finivano in rissa nelle locande frequentate dall’artista. 
Caravaggio aveva un carattere ombroso e iracondo, andava in giro armato, era sempre pronto a difendersi o a colpire in caso di qualche sgarbo, come testimoniano i verbali di polizia degli anni del soggiorno romano.


L’ultima opera della Cappella Contarelli, venne commissionata solo nel 1602. Secondo le volontà del cardinale, sull’altare fu inizialmente collocata una statua di San Matteo realizzata dallo scultore fiammingo Jacob Cobaert. Nel 1602 la scultura era ancora incompleta, priva dell’angelo (fu aggiunto in seguito da Pompeo Ferrucci). Il Crescenzi decise allora di modificare il progetto. La statua fu portata nella chiesa della SS. Trinità dei Pellegrini e chiese a Caravaggio di realizzare una tela. 
Quando il San Matteo con l’Angelo venne collocato al suo posto, sull’altare della Cappella, la congregazione di San Luigi gridò allo scandalo: San Matteo sedeva con le gambe accavallate mostrando in primo piano il piede nudo e sporco, con l’angelo che gli teneva la mano indirizzandolo nella scrittura del Vangelo. L’immagine fu considerata troppo cruda e umile; l’Evangelista era troppo simile a un rozzo pellegrino analfabeta. Così Caravaggio fu costretto a realizzare una seconda versione in cui il Santo ha l’aspetto di un filosofo e si volta verso il bellissimo Angelo, ancora in volo, che gli detta le Scritture gesticolando, secondo i modi dell’ars retorica. San Matteo è in piedi ma poggia il ginocchio su uno sgabello in bilico sul bordo del dipinto, dando un tocco di spontaneità. Questo secondo dipinto fu ben accolto, mentre l’altro fu venduto e finì nella collezione del marchese Vincenzo Giustiniani, dirimpettaio del Del Monte. Nel 1815, gli eredi vendettero l’opera al Kaiser Museum di Berlino, dove finì perduto per sempre a causa dei bombardamenti della seconda guerra mondiale.


















C’è una caratteristica che accomuna queste opere ed è l’uso della luce. Caravaggio studiò l’illuminazione reale della cappella, che avviene per mezzo di una grande finestra sulla parete dell’altare. Risulta comunque poco illuminata a causa dell’incombenza dell’imponente Palazzo Madama all’esterno. Il pittore considerò questo dettaglio e fece in modo che la luce nei suoi dipinti provenisse da quella finestra, come fosse un raggio divino. Una luce protagonista, significativa, calda e avvolgente, che colpisce i dettagli più importanti, come il gesto dell’aguzzino nel Martirio e i volti e le mani dei Santi nella Vocazione, lasciando il resto nella penombra. Fu questa la grande rivoluzione dell’artista milanese: sfondi neutri e forti contrasti luminosi che drammatizzano la scena e consentono di concentrare l’attenzione su pochi elementi descritti realisticamente. 

La Cappella Contarelli fu la rampa di lancio della carriera di Caravaggio. Da quel momento la pittura non fu più la stessa e lui divenne uno dei pittori più richiesti e più imitati della sua epoca.

sabato 2 maggio 2020

Le Statue Parlanti di Roma


Uno dei caratteri distintivi del popolo di Roma è da sempre quello di avere la battuta pronta, in modo simpatico ma anche spiccatamente critico nei confronti del potere centrale.

Avete mai sentito parlare di Pasquino e Marforio? Oppure della celebre Madama Lucrezia di piazza Venezia? Ecco a voi la “Congrega degli arguti”! Oltre ai suddetti ci sono il Babuino e i poco conosciuti Abate Luigi e Facchino.

La storia di queste statue “parlanti” inizia intorno al ‘400, quando già da secoli le classi dominanti, in primis il papa, imponevano con arroganza e corruzione leggi troppo spesso fatte ad hoc per i propri interessi.

Come fare a denunciare questi soprusi senza incorrere nelle ire del potente di turno? Affiggere cartelli satirici rigorosamente anonimi sulle statue poste in punti strategici della città, in modo da poter essere letti da più persone prima di essere rimossi dalle autorità! Ecco così che si forma la cosiddetta Congrega degli Arguti, che vedeva spesso dialogare, con divertenti botta e risposta, Pasquino e Marforio. In piena epoca napoleonica apparve una delle più famose pasquinate di sempre, che vide protagoniste le due statue appena citate: a Pasqui ma è vero che sti francesi so tutti ladri? No Marfò, tutti no, ma Bona-Parte!

Ma chi sono i protagonisti di questa Congrega? Iniziamo a scoprire la figura di Pasquino, l’unico dei sei che ancora “parla” con continuità.


Ritrovata all’inizio del ‘500 durante gli scavi per la pavimentazione stradale e la ristrutturazione di Palazzo Orsini (oggi palazzo Braschi, sede del Museo di Roma), la statua quasi sicuramente faceva parte della spettacolare decorazione dello stadio di Domiziano, oggi coperto da piazza Navona. Per volere di Oliviero Carafa, che si sarebbe stabilito in palazzo Orsini, la statua, seppur in cattivo stato di conservazione, fu sistemata nell’angolo dove ancora si trova oggi.

Grazie alla sua posizione la statua iniziò in breve tempo a “parlare”: nottetempo le venivano appesi al collo fogli con versi satirici volti a colpire i potenti, prontamente rimossi al mattino, quando ormai erano già di dominio pubblico. Ma perché la statua fu chiamata Pasquino? Ci sono varie ipotesi. La prima è che sia stata ritrovata nei pressi di un barbiere chiamato, appunto, Pasquino; secondo altri il nome deriverebbe dallo sfottò di alcuni alunni nei confronti del loro maestro, reo di essere incredibilmente somigliante alla statua; potrebbe anche essere il nome di un oste. Poco importa, l’importante è che da quel momento in poi la vita di Roma e dei suoi potenti fu scandita dalle pasquinate, temute dai personaggi più in vista e adorate dal popolino.

Anche il celebre Trilussa dedicò a Pasquino un sonetto:

«Povero mutilato dar Destino, come te sei ridotto!»
diceva un Cane che passava sotto ar torso de Pasquino

«Te n’hanno date de sassate in faccia!
Hai perso l’occhi, er naso… E che te resta? un avanzo de testa su un corpo senza gambe e senza braccia! Nun te se vede che la bocca sola con una smorfia quasi strafottente…»

Pasquino barbottò: 

«Segno evidente che nun ha detto l’urtima parola»

(Trilussa)

Della congrega fa parte anche il poco conosciuto Abate Luigi di piazza Vidoni, accanto alla chiesa di Sant’Andrea della Valle. La statua, che rappresenta un magistrato, è di epoca tardo-romana e fu rinvenuta in loco, nelle fondazioni di Palazzo Vidoni (area del teatro di Pompeo). Il suo nome deriverebbe dalla somiglianza tra il magistrato e il sagrestano della vicina chiesa del Sudario.


L’epigrafe alla base della statua ci ricorda il suo essere stata parlante:

FUI DELL'ANTICA ROMA UN CITTADINO
ORA ABATE LUIGI OGNUN MI CHIAMA
CONQUISTAI CON MARFORIO E CON PASQUINO
NELLE SATIRE URBANE ETERNA FAMA
EBBI OFFESE, DISGRAZIE E SEPOLTURA
MA QUI VITA NOVELLA E ALFIN SICURA

Vita sicura non troppo, visto che è stato più volte..decapitato! L’Abate parlò l’ultima volta nel 1966, in occasione di una delle decapitazioni:

O tu che m'arubbasti la capoccia
vedi d'ariportalla immantinente
sinnò, vòi véde? come fusse gnente
me manneno ar Governo. E ciò me scoccia.


La più giovane delle statue parlanti, e anche la meno nota, è il Facchino, piccola fontana murata in via Lata. Si trovà lì dal 1874, prima era posizionata sulla facciata principale di Palazzo De Carolis Simonetti in via del Corso (attuale palazzo del Banco di Roma).


La fontana rappresenta una figura maschile mentre versa acqua da una botte. Vista l’ottima fattura, è stata addirittura attribuita al celebre Michelangelo ma in realtà venne realizzata da Jacopino del Conte, nel 1580 circa, per la corporazione degli Acquaroli. L’acquarolo prendeva l’acqua dalle fontane e la rivendeva porta a porta, era quindi una figura fondamentale a Roma prima che i papi rimettessero in funzione gli antichi acquedotti (fine ‘500).

Un’epigrafe presente nell’originaria collocazione dedicava la fontana a un celebre facchino della città, tal Abbondio Rizio:

Ad Abbondio Rizio, coronato [facchino] sul pubblico selciato, valentissimo nel legar fardelli. Portò quanto peso volle, visse quanto poté; ma un giorno, portando un barile di vino in spalla e dentro il corpo, contro la sua volontà morì.”

Via del Babuino deve il suo nome a un’altra famosa statua parlante, il Babuino appunto, oggi addossato alla chiesa di Sant’Attanasio dei Greci. Poco si sa di questo Sileno disteso, che però colpì talmente l’immaginario dei romani da rinominare la via Paolina in via del Babuino, a causa della bruttezza del volto della statua!


Nel 1571 papa Pio V concesse l'utilizzo di alcune once d'acqua del nuovo acquedotto Vergine, appena ripristinato, al palazzo del nobile Alessandro Grandi, su quella che all'epoca si chiamava via Paolina, il quale fece realizzare, in onore del Pontefice, una fontana ad uso pubblico, ponendo la statua ad ornamento della vasca quadrangolare, addossata alla facciata del palazzo. Successivamente il palazzo divenne proprietà dei Boncompagni e nel corso dell’800, a causa dei lavori per la costruzione della rete fognaria, la fontana venne smembrata. La vasca fu riutilizzata per un’altra fontana in via Flaminia, il Sileno venne riposto all’interno del palazzo (divenuto Boncompagni Cerasi). Solo nel 1957 a seguito di una campagna di recupero portata avanti da alcuni cittadini romani, il Sileno è tornato nella via che dalla statua aveva preso il nome, e si trova ora a fianco della chiesa di Sant’Attanasio dei Greci.


Marforio è lo strano nome della statua parlante più loquace dopo Pasquino. Situata nei Musei Capitolini, molte sono le ipotesi sul significato del suo nome. La statua, probabilmente una divinità fluviale, fu rinvenuta nel Foro di Augusto, zona denominata Martis Forum nel medioevo per la presenza dell’antico tempio di Marte Ultore. Marforio sarebbe, quindi, una deformazione del nome latino del luogo.

Un’altra ipotesi fa derivare il nome dalla famiglia Marfoli o Marfuoli, che aveva possedimenti presso il Carcere Mamertino. Celebri sono i dialoghi con Pasquino, come già ricordato.

C’è anche una donna all’interno della Congrega degli Arguti, l’imponente Madama Lucrezia, accanto alla Basilica di San Marco in piazza Venezia. La Madama è un busto di epoca romana, alto circa 3 metri dall’identità incerta. Il nodo che ha sulla veste, ci consente di identificarla con la dea Iside o una sacerdotessa del culto isiaco.


Ma perché Madama Lucrezia? Secondo la tradizione il busto sarebbe stato donato a Lucrezia d’Alagno, l’amante del re di Napoli Alfonso V d’Aragona. Alla morte di quest’ultimo Lucrezia sarebbe scappata a Roma e si sarebbe stabilità in una casa nei pressi della sistemazione odierna della statua. Una simpatica tradizione è legata a questa statua: alla Madama tutti dovevano portare rispetto, quindi chi le passava davanti doveva inchinarsi e togliersi il cappello per avere una giornata propizia. I monelli del rione facevano a gara per far rispettare questa usanza... i cappelli venivano tolti con precisi colpi di fionda, mentre gli inchini erano assicurati da monete lasciate a terra ma legate a fili che ne consentivano l’immediato recupero!

Cosa rimane oggi delle Congrega? Tante pasquinate, tanta storia e simpatiche tradizioni, non dimenticando che con i social ognuno di noi può, nel suo piccolo, diventare Pasquino!

lunedì 27 aprile 2020

Ingegneria antica: il Parco degli Acquedotti

Tra i numerosi parchi di Roma, uno è sicuramente unico al mondo. E’ il Parco degli Acquedotti: si trova nel quartiere Appio Claudio, a pochi passi da via Tuscolana, dove si apre un’area di campagna vasta 240 ettari, attraversata da sei degli undici acquedotti costruiti in antichità!


Roma veniva definita la “Regina Aquarum”...la popolazione aveva a disposizione circa 1.000 litri di acqua al giorno per ciascun cittadino. Una quantità enorme, dovuta alla grande abilità costruttiva ed ingegneristica dei romani che li portò a inventare un incredibile sistema. Il primo passo consisteva nell’individuare la sorgente che veniva scelta per la posizione, la temperatura e il sapore dell’acqua. Quindi le acque venivano convogliate in bacini e si iniziava a scavare il tunnel sotterraneo, spesso tortuoso per aggirare le montagne, e con una minima ma costante pendenza. La galleria diventava lo specus, cioè la conduttura, le cui pareti interne erano rivestite di cocciopesto e intonaco per rendere lisce le pareti e permettere all’acqua di scorrere più velocemente assorbendo meno impurità possibili. Per ovviare al differente livello del terreno durante il percorso, soprattutto nei pressi della città dove è decisamente più basso della sorgente, lo specus veniva fatto fuoriuscire dal terreno, sorretto dalle imponenti arcate che garantivano la necessaria pendenza dell’acqua e che rendono queste opere ancora oggi famose in tutto il mondo. 


Proprio all’interno del Parco degli Acquedotti si può vedere affiorare lo specus dalla campagna e innalzarsi sino a quasi trenta metri (nel punto più alto) per consentire all’acqua di arrivare in città con la sola forza acquisita nel suo scorrere naturale. 

Utilizzando l’ingresso al parco all’incrocio tra via Lemonia e via Tito Labieno, il primo acquedotto che si incontra è l’Acqua Marcia (144 - 140 a. C.): blocchi di peperino e tufo giallo e rosso che compongono basse arcate su cui poggia lo specus. Da questo punto, l’acqua percorreva gli ultimi 9km del suo viaggio (lungo ben 91km e iniziato dalle sorgenti del fiume Aniene a Marano Equo) su archi a vista di cui restano poche tracce a causa delle distruzioni cinquecentesche. Costruire acquedotti richiedeva una grande spesa, per questo i romani tendevano a far passare più condutture sullo stesso percorso. Sui blocchi di pietra dell’Acqua Marcia infatti si vedono file di mattoni corrispondenti ad altri due acquedotti: l’Acqua Tepula (125 a. C.) e l’Acqua Julia (33 a. C.) provenienti entrambi da sorgenti sul Monte Tuscolo, con percorso parallelo sino alle piscine limarie della zona di Capannelle e poi sovrapposti per sfruttare le arcate dell’Acqua Marcia. Più avanti, nel parco, si conserva anche una cisterna, che era alimentata da questo acquedotto, ad uso privato della vicina Villa delle Vignacce di Quinto Servilio Pudente (II secolo d. C.).


Delle scalette consentono di scavalcare l’acquedotto e, da qui, spiccano gli imponenti resti di un’altra opera, l’Acquedotto Claudio.


Con l’avvento dell’Impero, l’acqua divenne fondamentale per abbellire e rinfrescare le ricche dimore aristocratiche. Ne servì sempre di più e con Ottaviano Augusto vennero costruiti ben tre acquedotti (Julia, Vergine e Alsietina) e fu lo stesso imperatore ad affidare al suo braccio destro Marco Agrippa il ruolo di curator aquarum, magistrato responsabile dell’apparato idrico cittadino. Dopo di lui fu il discusso Caligola a iniziare la costruzione di altri due acquedotti, conclusi dal successore Claudio nel 52 d. C.. Le imponenti arcate del Parco sono proprio quelle dell’Acqua Claudia, a cui si sovrappone lo specus dell’Anio Novus la cui acqua passava a circa un metro sopra il precedente. 


L’Anio Novus veniva detto così per distinguerlo da un più antico acquedotto, l’Anio Vetus (272 - 269 a. C.), il cui percorso era totalmente sotterraneo e le cui tracce sono state individuate sotto via Lemonia. L’acqua veniva presa dal fiume Aniene, ma ad altezze diverse. Solo nella zona di Capannelle i due specus dell’Acqua Claudia e dell’Anio Novus si sovrapponevano percorrendo quasi 14km sugli archi, sino all’Esquilino, a Porta Maggiore
Se vi capita di passare con calma nei pressi di quello che oggi è diventato uno snodo del traffico romano, potrete notare le due condutture che corrono proprio sopra gli archi della Porta. Questo era il punto da cui i nostri acquedotti entravano in città. A ben vedere, poco oltre si notano altri archi, quelli dell’Acqua Marcia con gli specus della Tepula e della Julia. Da qui l’acqua procedeva verso il resto della città, raggiungendo gli altri colli, come il Viminale o il Palatino, destinata alle residenze imperiali e aristocratiche, ma anche alle numerose fontane pubbliche.

Nel corso dei secoli queste opere dell’ingegneria romana sono andate in gran parte perdute a causa della mancanza di manutenzione ma soprattutto delle distruzioni ad opera dei barbari e dei papi. Nel 539 i Goti di Vitige, giunti alle porte di Roma, crearono il loro accampamento, noto come Campo barbarico, nel triangolo di terra definito dai due incroci dell’Acqua Claudia e della Marcia. Per costringere la popolazione alla resa decisero di privarla proprio dell’acqua tagliando i due acquedotti. Da quel momento iniziò la decadenza delle strutture. L’Aqua Claudia fu restaurata nel medioevo ma la portata d’acqua ormai non era più quella di epoca imperiale. L’Aqua Marcia invece subì un destino ancora più crudele: nella fine del cinquecento papa Sisto V fece costruire un acquedotto facendolo passare sullo stesso percorso di quello antico. L’acqua però arrivava ad un livello inferiore e il papa non ebbe nessuna remora a far distruggere quelle “inutili anticaglie” per recuperare materiali e far spazio alla sua Acqua Felice.

Passeggiando nel parco, noterete una sorta di fiumiciattolo che scorre in un fosso artificiale. In realtà questo era un acquedotto a cielo aperto, l’Acqua Marana o Mariana, realizzato per volere di papa Callisto II nel 1122 per aiutare i contadini ad irrigare i campi. L’acqua attraversava la città per sfociare nel Tevere, alimentando anche il mulino della Torre della Moletta all’interno del Circo Massimo. Curiosità: il termine “marrana” con cui si indicano piccoli corsi d’acqua deriva proprio da questo acquedotto. 


Il corso attuale non è più quello originale. Dal 1957 l’acqua è stata fatta confluire nel fiume Almone che attraversa il Parco della Caffarella e, a seguito di interventi voluti dall’Ente Parco Regionale dell’Appia Antica, dal 2011 il suo percorso è stato deviato ulteriormente. Gli scavi nel fossato hanno portato alla luce i basoli dell’antica via Latina, arricchendo il Parco degli Acquedotti di un altro tassello della storia di Roma.

Il rione Monti: storia e curiosità